La cosiddetta pillola della bontà, attualmente sperimentata dai ricercatori della University of California di Berkeley e di San Francisco, avrebbe lo straordinario obiettivo di farci diventare più compassionevoli amplificando l'empatia verso gli altri. E' questo il risultato (scientifico, non fantascientifico) cui mira il team statunitense nella sua ricerca che, al momento, conta 35 soggetti coinvolti nella sperimentazione. L'empatia, a quanto pare, è nata prima della parola e delle capacità cognitive ed è stata questa caratteristica della personalità a renderci umani nel senso più atavico del termine: da milioni di anni gli uomini si sono aiutati e curati a vicenda per sopravvivere.

E' quanto afferma la studiosa Penny Spikins dell'Università di New York che si occupa di evoluzione umana, autrice di un libro su questo argomento.

Il farmaco della bontà è a base di tolcapone e, secondo il meccanismo riscontrato, dovrebbe agire su quella zona del cervello che è alla base della nostra personalità, del nostro comportamento sociale e volitivo. Prolunga gli effetti della dopamina e mira a ritoccare l'equilibrio neurochimico nella corteccia prefrontale del cervello. Le 35 persone su cui il team di ricercatori sta eseguendo la sperimentazione, di cui 18 donne, sono stati separati in due gruppi: al primo è stato somministrato del semplice placebo, all'altro è stato dato il tolcapone.

Ad entrambi i gruppi è stato poi chiesto di prendere parte ad un gioco che consisteva nel dividere il denaro con un beneficiario sconosciuto. Chi ha assunto il tolcapone si è dimostrato più giusto e comprensivo, più buono e compassionevole e non ha esitato a condividere il denaro a vantaggio di perfetti sconosciuti: si è oltretutto dimostrato più sensibile verso le ingiustizie.

I ricercatori di Berkeley e San Francisco credono che la pillola della bontà potrà un giorno dare un importante contributo per la cura e il trattamento delle malattie mentali come la schizofrenia o le dipendenze, che hanno un forte impatto sociale. Ming Hsu, una delle ricercatrici, ha riferito che il loro studio non vuole rinnegare il concetto che "l'equanimità sia una caratteristica stabile della personalità", ma vuole allo stesso tempo dimostrare che questa caratteristica della personalità, la bontà e la comprensione, può essere influenzata da alcune vie neurochimiche del nostro cervello.